26 marzo 2008

Questa sera si cuce a soggetto



Parlo di un argomento poco frequentato, la costumistica teatrale.
Parlo di un argomento che io stessa conosco poco, ma lo faccio solo nel desiderio di ricordare un personaggio che molto mi affascina. So che la sua autobiografia, Vestire i sogni (Feltrinelli 1981) è ormai fuori catalogo, un vero e proprio reperto introvabile. Tralascio le polemiche, ho smesso di cercarla. So che nella mia città ce n’è una copia in una biblioteca che ha orari assolutamente incompatibili con il mio lavoro, ma non escludo di prendere un giorno di ferie per andare a chiederla in prestito!
Mi piace, ancor più delle foto dei suoi incredibili vestiti, leggere le sue storie e tutto quello che riescono a trasmettere; la saggia follia di vestire la Callas di “cencio della nonna” per farne Medea (e l’umiltà e l’orgoglio con cui si definisce proletario dello spettacolo!), la curiosità, la vivacità intellettuale che lo hanno portato dalla sartoria del suo paese ai grandi laboratori teatrali, la leggera vena di malinconia in cui racconta della sua solitudine personale.
Ma soprattutto mi colpisce come lui riesca a “raccontare un mestiere” – e tantopiù un lavoro artigianale – in cui ci immaginiamo che prevalga l’elemento razionale dell’organizzazione delle risorse e delle fasi del lavoro anche sulla base di routine collaudate. Invece Tirelli descrive sempre i suoi allestimenti come “mascherate”, come grandi avventure in cui prevale su tutto l’impulso creativo, il guizzo dell’intuizione, soprattutto l’IMPROVVISAZIONE dell’ultimo momento. Leggere per credere.
Oggi abbiamo un rapporto così problematico con il lavoro (lo inseguiamo così disperatamente che smettiamo di ricordarci cosa vogliamo veramente) che sembra incredibile che si possa raccontare un lavoro – e un lavoro fatto per tutta la vita – con così tanta leggerezza, incanto, stupore.
Sembra proprio che la polvere degli anni – e il carico di angosce e delusioni che si accumulano inevitabilmente anche in una grande carriera – non abbia lasciato traccia nella suggestione con cui Tirelli ci racconta i suoi ricordi.
Il suo racconto non lesina gli aspetti titanici del lavoro (ad esempio un folla di comparse/matadores rimaste da vestire nel giro di pochissimo tempo per la Carmen) né quelli pittoreschi (la processione delle sacerdotesse con una piccola candela in mano nella Norma). E poi, generosamente, rivela il particolare che sta dietro quell’effetto (una candela, una cintura di carta, una pettinatura particolare…).
Quasi a dire che, quanto più piccolo è il trucco, tanto più grande l’illusione. E che il grande spettacolo comincia e finisce dove l’artista non si fa vedere, dove il pubblico non si spinge.
Dietro le quinte, tra i “proletari” dello spettacolo.
Tutti abbiamo sogni che hanno bisogno di essere vestiti.

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